“Nascita”, poesia di Emanuele Marcuccio, con un saggio di Lorenzo Spurio
Grato al critico letterario e poeta Lorenzo Spurio per aver letto davvero in profondità quello che io ho voluto solo evocare del Mistero del Natale, e sì, perché la poesia evoca, non descrive. Al massimo quando “descrive” lo fa sempre in profondità, vi è sempre una “descrizione” verso il profondo.
E quello che ho notato dopo attenta e necessaria lettura e rilettura nel suo modo di fare critica letteraria, in particolare quando la sua attenzione si rivolge, come in questo caso, a una singola poesia, è che accompagna il lettore in un viaggio attraverso gli aspetti contenutistici di quella poesia in esame e attraverso quello che si legge tra le righe, che il poeta ha voluto solo evocare, com'è prassi della poesia, e che ogni buon critico come tale sa interpretare.
NASCITA[1]
(poesia di Emanuele Marcuccio)
luminarie
luminose
lucori
luci
invadono le strade
e annunciano
la Nascita
Dio bambino
tu vieni
nonostante noi
noi che dimentichiamo
l’immenso
11 dicembre 2017
La lirica di Emanuele Marcuccio, “Nascita”, per tematica e suggestioni apre a un panorama sconfinato di possibili rimandi potenzialmente infinito e sfuggente all’interpretatore (“Nacimiento” di Pablo Neruda, “Sono nata il ventuno a primavera” di Alda Merini, la funambolica “Mi ha fatto la mia mamma” di Gianni Rodari,…). Ciò accade perché ci troviamo dinanzi a un motivo fondamentale, direi cruciale e trainante, di molta poesia e letteratura speculativa che pone al centro delle proprie attenzioni il mistero della nascita, il motivo della natalità, dell’introduzione al mondo e dell’esordio esistenziale. Tema, per altro, che ha una sua connotazione prettamente religiosa (si pensi alla Genesi biblica e al concetto stesso di ‘genesi’ nonché quello di ‘Natale’) e cosmologica e che risulta d’interesse nevralgico in quel comparto significativo della poesia italiana contemporanea dove i temi dell’infanzia, del fanciullino, della malinconia verso l’età andata, del ricordo dolce e opprimente, della famiglia e dei luoghi vissuti in età spensierate appare ricorrente o preponderante.
La poesia di Marcuccio contiene due nuclei tematici tra loro collegati in maniera assai perspicace che derivano da visioni, considerazioni e riflessioni di diversa natura. L’immagine d’apertura della lirica è quella della luce, una luce artificiale e ‘rumorosamente’ pressante che invade le strade cittadine in prossimità delle festività natalizie. È una luce farsesca e ripetitiva, pesante e mendace, sembra di percepire nelle esatte e lapidarie parole del Nostro quasi un animo di sfiducia o d’insofferenza dettata forse da quell’inquinamento visivo che è iperbolico e paradossale, allegorico e celebrativo ma anche carnevalesco e consumistico. Si tratta di un’immagine di luce – è vero – ma non è la luce stenta della Cometa né quella di qualche lampada a olio di qualche pastore che giunge a celebrare il Neonato.
Ed ecco, a seguire, il motivo di perplessità di Marcuccio: le luci della festa sono fuochi fatui di un mondo commerciale dove l’uomo s’è s-personalizzato e insuperbito. Luci che intermittenti danzano di continuo nelle strade del centro mentre il barbone continua a vivere all’agghiaccio e la sterilità comunicativa delle famiglie continua, la violenza non cessa e in noi troviamo difficoltà a scorgere e far risaltare quella luce buona, unico focolare che è in grado di cambiare il mondo mediante il linguaggio dell’amore.
Cristo nasce allegoricamente per strada, tra i supermercati che fibrillano al suono dei bar-code della cassa, lì negli spazi dove l’economia gira, tra i consumi e le chiacchiere, tra le carte di credito che si passano e un cuore che è chiuso, disattento, impermeabile, lontano dal buon senso, dagli istinti di pacifica socialità, di amicizia e costruzione e difesa di un bene collettivo. Il Signore – nella lirica di Marcuccio – sembra venire alla luce non tanto perché naturale conseguenza dell’ingravidamento di Maria, quanto perché effettivamente “ha da nascere”, per tradizione ma soprattutto per necessità. Rinvigorimento del commercio e festa ‘comandata’ in cui la felicità in qualche modo “ha da esserci”, quella stessa letizia e voglia d’unità che si potrebbe avere e ricercare in un giorno qualsiasi del calendario. Cristo nasce perché è così e s’ha da celebrare – cambiano i tempi e i modi e tutto si fa commercialmente virale e umanamente desolato – e, come dice Marcuccio con forza espressiva “tu vieni/ nonostante noi”.
L’imbarbarimento e la convulsione che dominano la società influendo in un impoverimento dei rapporti e in un antagonismo continuo nei confronti dell’altro non escludono, dopo tutto (di grande impatto quel “nonostante noi”, la cui resa si perderebbe con l’uso di un’altra terminologia) la venuta di Cristo. In altri contesti la costruzione avversativa – di ampio uso in un linguaggio argomentativo e dimostrativo e ben meno in quello poetico – avrebbe potuto significare una sorta di improvvisa frenata, di arrancamento nel normale fluire dei versi, ma qui ciò non avviene. Difatti il poeta, nell’accapo successivo adopra oculatamente una ripetizione del vocabolo precedente, quel pronome personale plurale (“noi”) nei quali tutti – nessuno escluso – siamo inseriti, con una voluta impronta d’accusa e di recriminazione che chi legge s’ha in qualche modo da porsi.
L’oggetto di questa accusa – o, meglio il destinatario, dovremmo dire – è l’umanità nella sua intera composizione nella forma, come s’è già detto, dell’uomo disattento e frenetico, sempre improntato a seguire le sue cose egoisticamente e acrimoniosamente, arrabbiato col mondo, facile all’irritazione e propendente alla noia piuttosto che all’attiva compromissione. Il poeta non dà questo identikit di quel ‘noi’ e in effetti egli non ha voluto – com’è buona norma della poesia che è meglio che non dica o, al massimo, che alluda o evochi – dirci perché – secondo lui – l’uomo non è meritevole di ricevere la venuta di Cristo (il “Dio bambino” di Marcuccio). Il perché non sia degno di festeggiarlo. Wisława Szymborska risponderebbe in maniera lapidaria “Alla nascita d’un bimbo/ il mondo non è mai pronto”. Anche se quello – è bene che si dica con forza – non è ‘un’ bimbo ma è ‘il’ bimbo.
Pare abbastanza possibile credere che l’autore – lavorando d’ellissi – abbia voluto aprire all’attento lettore la partecipazione nella costruzione di significato di ciò che non ha detto, perché non è scritto, ma che è fin troppo presente nel sotto-testo. La ragione potrebbe essere racchiusa in quel procedimento omissivo e noncurante dell’uomo dall’autore delineato nei versi finali (“noi che dimentichiamo/ l’immenso”) ma, anche in questo caso, l’autore non è nuovo a giocare su un possibile utilizzo poli-semantico della terminologia.
Cosa va individuato in quell’inesplicabile e opprimente “immenso” di leopardiana[2] e finanche ungarettiana[3] memoria? Nella totalità scevra di legami di quella realtà di immagini e suoni l’uomo dimentica l’immenso: ciò che non ha forma, ciò che non c’è contenitore che lo contenga, ciò che non ha manifestazione empirica di sé. L’uomo dimentica – perché travalica, silenzia od offende – se stesso, la sua interiorità, la necessità di ascoltarsi e dialogare con il proprio animo e, di riflesso, l’empatia con gli altri e l’ambiente, con il senso della creazione e i termini del suo ‘esserci’ al mondo. L’uomo dimentica se stesso perché dimentica Dio ergendo al suo posto falsi miti, emblemi vulnerabili e viziati che non danno la salvezza.
Lorenzo Spurio
Jesi, 26 gennaio 2018
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[1] Ringrazio per la foto “Controluce” la poetessa e critico letterario Lucia Bonanni. [N.d.A.]
[2] L’immenso del Recanatese è riferito alla celebre poesia “L’infinito” (1818 – 19) dove leggiamo: “Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Il Poeta, dopo una dolce visione degli spazi a lui abituali nel Colle dell’Infinito, giunge a travalicare quella separazione prima netta e insormontabile tra realtà concreta e assoluto immanente. Il ‘dolce naufragar’ è un ritorno – finale e auspicabile – alla materialità femminea, alla terra e alla madre in una decisiva ricongiunzione e appropriazione del finito nell’infinito nello spazio-temporalità dell’eterno.
[3] La celebre poesia “Mattina” scritta nel 1917 nella forma del settenario “M’illumino/ d’immenso”, testo fondante della poetica ermetica, volutamente ossuta e retrattile, sincopata e telegrammatica dove il significato va rintracciato nelle lacune che le poche parole lasciano. Questa impronta riduttiva ed essenziale è stata già osservata nell’opera di Emanuele Marcuccio in precedenti liriche. A differenza del dramma interiore che deriva da un dramma sociale divampante (la guerra) come fu per Ungaretti, Marcuccio ha rivelato di essere approdato alla predilezione per una forma asciutta a seguito di un suo laboratorio poetico e di affinamento degli arnesi. La sua poetica viene a mostrarsi per essere quasi epigrammatica; in essa i contenuti – sempre allegorici – hanno da essere scorporati a partire dalle parole-chiave sui quali i componimenti sono eretti.