"Canto d’amore", da «Per una strada» di Emanuele Marcuccio
Canto d'amore[1]
Leggerezza, delicatezza
soffusa e serena:
un fiore, che leggiadro
al primo suo fiorire,
espande per l’aria
gli odorosi suoi sospiri,
e irrora dolcemente,
e irradia di luce
l’aria della notte:
un’arpa ascolto,
lontano il suo suono
si perde;
sospirosi ardori,
sospirato amore,
ti chiamo
e nella notte mi perdo.
6 dicembre 1999
Potete leggerla anche qui, su Blog Letteratura e Cultura, di Lorenzo Spurio.
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[1] Edita in Marcuccio, Emanuele, Per una strada, SBC Edizioni, 2009, p. 89.
Riedita nell’agenda 2010 Le pagine del poeta. Mario Luzi, Editrice Pagine, 2009.
Poesia ispiratami dall'ascolto del Quintetto n. 1 op. 89, di G. Fauré, precisamente l'adagio.
Sono sedici versi che alternano la terza persona (espande, irrora, irradia, si perde), descrittiva dell’oggetto amato con tre splendidi versi (10°, 15°, 16°) in prima persona: un quinario “un’arpa ascolto” e un ottonario
“e nella notte mi perdo” sospesi e vaghi, a siglare un clima incantato e infine uno scolpito ternario “ti chiamo”, perentorio, esclamativo, che fa da perno a tutta la composizione. Da notare anche la corrispondenza iterativa dei versi 11° e 12° “lontano il suo suono/ si perde;” con l’ultimo verso “e nella notte mi perdo.”.
La breve lirica è un polisindeto di giusta lunghezza, con la cadenza, il respiro esatto, che ha l’unica pausa, e riprende fiato, sul bellissimo “un’arpa ascolto” che è un pentasillabo morbido, rotondo, appena inciampato sulla sinalèfe di “arpa-ascolto” (ma è difetto veniale e qualcuno potrebbe anche definirlo un pregio). L’effetto “morendo”, “perdendosi”, pur nell’intensità dell’emozione, è reso benissimo.
Quintetto n. 1 op. 89, di G. Fauré: II. Adagio