«Dipthycha 2» di Emanuele Marcuccio e AA.VV., letto e commentato da Lucia Bonanni
DIPTHYCHA 2. QUESTO FOGLIO DI VETRO IMPAZZITO,
SEMPRE, C’ISPIRA[1]
UNA LETTURA
Anima di poesia che mi abbracci
nell’attesa, nel silenzio,
mi sembra di sognare...
Anima di poesia, non svegliarmi,
lasciami ancora sognare...[2]
(Emanuele Marcuccio)
O coronata di viole, divina
dolce ridente Saffo.[3]
(Alceo)
“Sempre a te stretta non tener l’idea,/ ma lascia il tuo pensier che in aria vagoli/ come uno scarabeo legato a un piede”[4], Le Nuvole, una commedia di Aristofane (444 - 385 a.C.) la cui rappresentazione ho potuto vedere al teatro greco di Siracusa. Similmente al palcoscenico di un teatro è la piazza del web dove lo spettatore al posto della cavea ha davanti un “foglio di vetro impazzito” (Emanuele Marcuccio) e una tastiera “in realtà autentiche” (Silvia Calzolari) di “Vita parallela” e “Telepresenza” (Marcuccio) di “umanosentire” (Calzolari). Apparati di spettacolo e “pensatoio di anime sapienti” (Aristofane, op. cit.) in cui l’individuo è attore e spettatore, vive attraverso la proiezione virtuale tutte le problematiche emozionali connesse alla propria realtà psichica, riuscendo ad utilizzare il potere espressivo come creatività e catarsi. Se nel teatro è l’attore a mediare il personaggio e ogni singolo spettatore se ne appropria in una identificazione emozionale, nella realtà virtuale è una “[...] telepresenza/ frapposta da un foglio di vetro” (Marcuccio) in cui “sensazionintense di parole unite// [...] costruiscono mondi// di umanosentire” (Calzolari). L’immaginario che costituisce anche svago per la mente, è una necessità logico-formale per cui l’intimum mentis ordina e attribuisce significati agli eventi, individuando modelli di linguaggio insieme ad una possibile via di accesso alle creazioni estetiche quali espressioni di sentimenti, passioni, costumi e angolazioni sociali e culturali. È quanto è successo per il progetto di “Dipthycha”, ideato e curato da Emanuele Marcuccio, poeta e aforista, e che dà vita a dittici a due voci, grazie anche alla poetessa Silvia Calzolari, musa ispiratrice del componimento “Telepresenza” e successivamente del primo dittico a due voci realizzato nel maggio 2010.
Il dittico, parola derivante dal greco con significato composto di due e piega e in latino diptycha (-órum), piegato in due, era la coppia di tavolette di legno o di avorio, ripiegabili l’una sull’altra e legate da una striscia di cuoio, che nell’antichità erano usate nella parte interna, spalmata di cera, come superficie per scrivere. I magistrati le usavano per mettere il loro nome e il loro ritratto e per donarle agli amici il giorno della loro entrata in carica. Diptycha riguardava i dittici della Chiesa e serviva per registrare i nomi dei vescovi. Al Museo di Santa Giulia a Brescia ho potuto ammirare dittici romani in avorio scolpito, alla Galleria degli Uffizi i dittici dipinti di Bonaventura Berlinghieri nel “Dittico della Crocifissione” e quello di Piero della Francesca per il doppio ritratto dei duchi di Urbino mentre al Museo nazionale di Ravenna ne ho visti alcuni, riguardanti l’ambito cristiano.
Quale “sintesi immaginifica” di tutto il lavoro sulla copertina di Dipthycha 2 spicca l’immagine, per me meravigliosa, particolare dell’affresco di età pompeiana, «Scriba o Saffo» (I sec. d.C.): «[U]na fanciulla magnificamente agghindata che tiene con la mano sinistra un dittico e con la destra lo stilo alle labbra» scrive Marcuccio nella nota di Introduzione. I nuclei tematici, formanti ciascuno dei dittici, oltre alla vasta gamma di sentimenti, sono rintracciabili nelle corrispondenze empatiche, le dediche ai poeti, la passione intellettuale e in quella amorosa, la violenza di genere sulla donna, la natura nelle sue molteplici accezioni, le valenze simboliche dello specchio, del filo, del mare, della luna, per non dimenticare i genocidi e le guerre, nonché il richiamo ai classici da cui mi piace iniziare questa mia lettura.
Pauroso apparve [Odisseo] a quelle, orrido di salsedine,/ [e le fanciulle] fuggirono qua e là per le lingue di spiaggia./ Sola, la figlia di Alcinoo restò, perché Atena/ le infuse coraggio nel cuore, e il tremore delle membra le tolse.[5]
Se nei versi di Omero simile ad una dea per bellezza e portamento appare la fanciulla a Ulisse, Marcuccio le restituisce dimensione terrena e nel suo “candore di purezza” lei si illude che “l’ardito eroe” possa donarle quell’amore di “lucente bellezza” da sempre vagheggiato. I versi di Marcuccio sembrano quasi una nenia, sembra quasi che il poeta voglia ninnare quel “sogno d’innocenza” per allontanare il pianto causato dall’ “amara sorte”.
“Quando/ mi diparti’ da Circe [...]/ né dolcezza di figlio, né la pieta/ del vecchio padre, né ‘l debito amore/ lo qual dovea Penelopè far lieta,/ vincer potero dentro a me l’ardore/ ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto [...]” (Dante, Inferno, canto XXVI)
Così nella fiamma biforcuta insieme a Diomede, Ulisse sconta la pena dei procuratori di frode mentre nei versi di Anna Alessandrino è a causa del “[f]ragore di inutili battaglie/ tutte là/ su quell’ormai bianco petto incise/ che han dissolto nell’ira/ il ricordo di sussurrati amplessi/ e di mani intrecciate sul letto sfatto”. Penelope adesso è una donna stanca, disillusa, indifferente anche agli sguardi, una donna consumata dall’attesa, dalle troppe lacrime versate e dalle tante notti solitarie, una donna che non ha più aspettative, che non trema più al pensiero di stanche carezze, che non sta più lì accanto al talamo a tessere una tela che più che un panno è trama di fibre d’amore. “È sulla soglia adesso/ e conta le sue battaglie senza fragore”. Con piglio felice di donna e di poetessa l’Alessandrino dipana un canto assai delicato nelle tonalità espressive e che mai disattende la vena di lirismo, lasciando che sia il lettore ad immaginare la tensione che si sviluppa sul talamo, costruito sul vecchio olivo.
Nei versi di Rosalba Di Vona Penelope sembra quasi voler richiamare la “Passione/ In apparenza sopita/ [e sembra esortarla ad aprire il suo cuore] Prima che perda/ Ciò [che per lei] È insostituibile e unico” e nei versi di Marcuccio sembra “[c]ome un sogno/ [che] si adagia e si rasserena/ [nel suo] andare disperso”.
Altre vicende di donne evocano la figura di Penelope a cui fanno eco la sorte di Didone che Enea ritroverà nell’Ade, l’anelito dei sogni colorati di una bimba che rivive nei versi di Ilaria Celestini, voli stroncati “[da] mani di adulto/ [che le hanno] stappato le ali” e ancora Elettra, personaggio centrale nella tragedia di Sofocle (497 - 406 ca. a.C.) come lo è Antigone. “Non morì uno schiavo, morì mio fratello”[6] risponde decisa Antigone, rea di aver celebrato i riti funebri per quel fratello, lasciato sulla nuda terra, “orrido pasto” di cani e di uccelli. Ed è un altro fratello, Oreste, “creduto morto” a consolare quella sorella “reietta, percossa, disprezzata”, ma che “giammai trema/ sotto le sferze del ciclone” (Marcuccio). La suggestione evocata dai versi della Celestini e da Marcuccio, riguarda la violenza di genere ad opera dei tanti Egisto che “bruciano” libri per convertire in sudditanza l’emancipazione culturale della donna. In psicologia il nome di Elettra rimanda a quello che viene indicato come “complesso di Elettra” che è poi il corrispettivo del “complesso edipico” che sia Freud che Jung avevano preso a modello dagli autori greci per meglio definire le nevrosi dell’età adulta. Ma poi è sempre la natura a far da contraltare alle vicende dell’uomo e “non c’è processo simbolico che non sia avviato da un’iniziale emozione poetica come dimostra il fatto che conoscere è ridestare alla memoria, gioire è ricordare l’immemorabile”[7]. Così il mare, il sole, la luna e non ultimo lo specchio, sono esplorazione simbolica del mondo primitivo in cui il μύθος (mythos) apre l’orizzonte dove qualcosa è.
“Senza mito non c’è poesia e senza poesia non c’è chiarificazione del fondo oscuro della psiche”[8]. Lo specchio, antifrasi e ripetizione dell’identico, è anche ritorno su luoghi conosciuti. “Sublime specchio di veraci detti,/ mostrami in corpo e in anima qual sono”[9] scrive l’Alfieri che spesso “irato a’ patrii Numi” si recava presso i marmi di Santa Croce a trovare ispirazione. Nei versi di Marzia Carocci lo specchio è urna che accoglie ombre insieme a una parte dell’essere, “Ombre su specchi/ dai lividi incanti/ dove muore riflessa/ una parte di me”; a differenza dell’incanto, il disincanto è la situazione spirituale che implica il superamento di un’illusione e nei versi della poetessa l’incanto, cioè l’attrazione dell’immagine riflessa, che esercita lo specchio, ha tinte scure e quell’aggettivo “lividi” ne rivela tutta la drammatica istanza. L’ironia dello sguardo, però, lascia che sul vetro scivoli via “come fresca rugiada” l’intima essenza delle cose. Cardine del componimento sono le due espressioni contrapposte “lividi incanti” e “fresca rugiada”, la prima a significare un attimo di smarrimento interiore e l’altra a recuperare la quiete perduta. Marcuccio si incanta alla vista del “palpitar d’acque tremolanti” e si lascia cullare dal senso di pace e specchia il proprio essere nella rifrazione di uno “specchio che traluce,/ che trapassa [...]/ [e] s’immerge,/ senza tempo” quasi a voler eternare il “sogno”.
“Non sapevo fosse così. Credevo che tutto finisse con l’ultimo salto. Che il desiderio, l’inquietudine, il tumulto sarebbero spenti. Il mare inghiotte, il mare annienta, mi dicevo”[10] è quanto Cesare Pavese (1908 - 1950) fa dire a Saffo in «Dialoghi con Leucò» mentre Britomarti, ninfa cretese, le risponde che “morire a una forma è rinascere a un’altra”. Ma “[l]à, dove il mare è profondo,/ fondo fondo;/ là, dove le onde si rincorrono,/ corrono corrono:/ [...] lo sguardo [...]/ si fa chiaro” (Marcuccio), e “[...] le tue acque mi preme sfiorare.../ il tuo sorriso appare” (Grazia Finocchiaro). Ricorrono nei versi di Marcuccio le belle anadiplosi, cioè il raddoppiamento di un termine con significativo effetto di risalto: “fondo, fondo”, “corrono, corrono”, via via, come risaltano nei versi di tutti gli altri poeti le ampie figure retoriche a iniziare dalle sinestesie quale stilema tipico della poesia simbolista e della poesia ermetica italiana.
Per Gian Piero Lucini (1867 - 1914) la luna è “luogo comune delli sfaccendati/ in ogni prova prosodica,/ facile rima ai sonetti romantici”[11]. Ma la luna affascina a tal punto Marcuccio da fargli scrivere una lirica come risposta alla domanda di Leopardi e sulla superficie del satellite scopre “ammassi oceani” e “mari [che] la solcano/ in prosciugata tranquillità”. Come scrive, invece, Aldo Occhipinti, “[o]ppressa di noia e di smanie/ l’umana specïe s’addorme.../ Selenica luce, esterna salute” mentre per Foscolo, “[l]ieta dell’aer tuo veste la Luna/ di luce limpidissima i tuoi colli”[12]. Quella che descrivono i due autori non è una luna che si è rotta e in cielo lascia vagare i cocci, ma è Diana, simbolo femminile e protettrice della castità quale attributo muliebre, mimesi di rappresentazione e atto magico da non violentare.
“Dove si perde/ il canto del cuculo/ un’isola sola”[13] (haiku di Matsuo Bashō) e il barbagianni è “[c]lownesco rapace,// [e mostra] trasparente bellezza” (Marcuccio) e il rondone che “[...] non tocca mai il suolo,/ [...] in cielo si accoppia:/ [...] e mangia e dorme/ in cielo” (Occhipinti) e “[l]a [...] rosa/ è illuminata dalla prima luce,/ di un nuovo mattino” (Maria Rita Massetti), “[ed io all’alba] sono uscita incurante del freddo/ [e adesso a voi chiedo] Chi ha rubato nella notte/ I semi di girasole?” (Giusy Tolomeo)
Queste liriche di Marcuccio, Occhipinti, Massetti e Tolomeo ci ricordano la libertà dell’aria e i colori floreali della terra dove una piccola e delicata foglia non è “meno importante/ del quotidiano corso delle stelle”[14].
Tutto legato da un filo trasparente che si srotola e si arrotola a seconda della mano che lo tiene e che si attorciglia “in un ampio corso” e “si adagia, si sospende, si abbatte” (Marcuccio) in un labirinto di idee, su acque sorgenti, su un raggio di sole, nell’azzurro, cercando “[u]na mano dolce/ che legherà per sempre/ quel gomitolo/ al suo cuore” (Tolomeo).
Chiare, fresche et dolci acque,/ ove le belle membra/ pose colei che sola a me par donna (Petrarca, Canzoniere CXXVI)
“Verdi alture frondose,/ [...] limpide cascate:/ acqua pura e limpida,/ fresca grazia luminosa,/ natura viva e rigogliosa” (Marcuccio), “pulviscolo di fruscio d’ali il vento solleva/ muovendo a pacato calore sguardi e cuori/ di solitari sparuti osservatori” (Grazia Tagliente). Nel componimento di Marcuccio si può ascoltare il medesimo suono delle acque delle “rime sparse” in cui la natura è viva e trasposizione di amorosi pensieri. Nella lirica di G. Tagliente la parola “pulviscolo” richiama la frantumazione dell’acqua, sollevata dal vento, nello stramazzo della cascata mentre i cuori sono osservatori solitari.
“C’è un albero dentro di me/ trapiantato dal sole/ le sue foglie oscillano come pesci di fuoco”[15] (Nazim Hikmet), “Dorati petali/ fiori profusi/ catene intrecciate/ d’amore” (Rosa Cassese), “Canta la primavera/ su per le fronde/ e per gli arbusti accesi” (Marcuccio). Nei versi di questi due poeti oltre a Hikmet c’è il Pascoli delle vermiglie bacche, l’andar di frasca in frasca del d’Annunzio, “La Falterona verde nero e argento” di Campana dove tra fini capelli vegetali “traspare il sorriso di Cerere bionda”[16].
Ma non è “Eternità”, bagliore di attimi sereni, anche lo stesso Bufalino afferma: «Capita a volte di sentirsi felici. Non fatevi prendere dal panico. È solo un attimo e passa»[17]. Così, oltre quel fumo denso e asciutto, “oltre l’orizzonte sconfinato” (Marcuccio) creatura del mio tempo “usavo lo stesso linguaggio/ [di altri uomini]” (Tolomeo), “brama[vo] viva speranza/ e tanta audacia nel cammino” (Teocleziano Degli Ugonotti), insieme a quel raggio di sole “che non muore” (Tolomeo) i versi di Marcuccio, Tolomeo, Degli Ugonotti, fanno eco ai versi di altri poeti e la guerra, la maledetta guerra, in ogni sua forma e collocazione geografica, insieme alle genti scolora anche le bacche e i girasoli, mescola “[i] rumori della notte” e “[tra] picchi di silenzio” imputridiscono anche “[g]li odori della notte”. E allora “[v]errà il Silenzio/ [...] e sconsolato di suo trionfo/ ti prenderà per mano” (Daniela Ferraro) mentre “il pensiero viaggia istantaneo” (Marcuccio) e sul pianto non udito dei “[t]recentonove Aquilani” che “[t]utto hanno perduto” (Marcuccio) e adesso si confondono tra “[v]ibrazioni devastanti” (Ciro Imperato) e “nella rovina di quelle case” (Marcuccio). Così, ancora una volta nella storia dell’Umanità “[p]olvere e sangue” si impastano “[a]lla nuda frontiera del mondo/ [dove] impavidi cecchini sparavano,/ uccidendo soldati amici” (Lorenzo Spurio) e Marcuccio, “[m]uta/ una nobile famiglia/ e rimane, muta/ divisa/ al presente.../ espia colpa/ amara colpa”. Marcuccio fa del lessico incisivo gioco di parole, metafora concettuale, paronomasia sonora, ossimoro e assonanza e il vocabolo “muta”, meravigliando il lettore, una volta è verbo e l’altra aggettivo. Ma chi sarà “[i]l laido timoniere” che naviga “nei mari avulsi da umana presenza” (Spurio) e “[i]l marinaio” che “sbattuto dall’onde/ in mare precipita/ e naufrago a riva/ di nuovo riparte” (Marcuccio).
“In giro me ne vado come cirro/ silenzioso come ombra. Mi piace/ stare alto sui tetti a galleggiare/ guardando”[18].
Fin dalla prima lettura del testo, nei versi dei poeti di cui finora non ho fatto menzione, mi era sembrato di scorgere una maggiore vicinanza con i poeti ermetici, anche con quelli che vengono definiti petrarchisti dell’ermetismo con argomentazioni di contenuto ascrivibili ad altro genere, collegate tra loro da un filo di pensiero. Il ricordo, la malinconia, la calura estiva quale trasposizione dell’ansia di vivere, i pensieri vaganti nella mente, l’origine del mondo nel momento del Bing Bang ed anche l’origine della vita nel momento della fusione dei gameti, ma anche il dolore, descritto in toni velati.
“Lo ricordo, e ricordo il suo volto taciturno, le sue mani affilate d’intrecciatore. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce posata, nasale e un poco lamentosa”[19]. Per Donatella Calzari i ricordi sono “petali di fiori profumati”, “zattere vaganti/ sulle guizzanti acque/ della speranza”, sono le voci di dentro che emergono dalle profondità dell’anima, spesso saltano fuori da quelle “tortuosità interiori” dove si annidano angosce e tormenti. I ricordi sono per ciascun uomo frammenti e patrimonio di un tempo vissuto e quando “[un] bianco dolore/ [...] arrossa la faccia”(Marcuccio) essi sono rifugio dell’essere. Il ricordo è anche un atto di memoria, è un trattenere informazioni per poi riportarle alla mente in un processo logico del riconoscere e ricordare. Durante gli anni della prigionia a Hikmet non era concesso usare carta e penna, il poeta componeva versi a mente e poi li passava a chi andava a fargli visita perché non venissero dimenticati; la Cvetaeva trascorreva intere giornate sotto le mura del carcere di Leningrado per mandare a mente i pensieri dei detenuti che poi lei portava in messaggio ai parenti. La poesia stessa è il ricordo delle immagini. Riusciamo a scrivere versi perché abbiamo dei ricordi da raccontare, perché questa o quella immagine ha impressionato la nostra retina, una musica ha evocato emozioni, la bellezza di un tramonto ci ha fatto sentire parte dell’universo, un avvenimento ci ha ricondotti ad altre epoche della nostra esistenza. Una madre sussulta al ricordo del primo vagito dei propri figli e ne sente nostalgia. Ci si inebria di malinconia al ricordo di un amore giovanile oppure si soffre al pensiero di un’occasione sfumata. Ricordare una pagina di letteratura significa ricordare uno squarcio della propria esistenza; sfogliare un album di fotografie significa rivivere momenti che ci hanno fatto piangere o gioire. Non dimenticherò mai, allora ero giovane studentessa, quella volta che un compagno di scuola ci mostrò la pagina di giornale in cui era riportata la notizia di un ragazzo che per protesta si era dato fuoco nella Piazza San Venceslao a Praga. In quel momento il silenzio che era sceso dentro di noi, lasciò i banchi vuoti e le menti senza respiro. E il ricordo è spesso malinconia che “il pensiero ci fa balenare”, è quella “noia feconda [che] ci assale, inermi” (Marcuccio). Nei versi della Calzari la malinconia è descritta come “azzurrognole perle/ [che] scalfiscono/ cretosi selciati// [e] tutto stinge/ in malinconica attesa/ dell’omega” ovvero in trepidante attesa che tutto si tramuti in certezza e gioia festante. La malinconia è ansia di vivere, un’attesa che è luogo di ritorno. Così un “paradosso di polveri/ sabbiose/ e di ritagliati sassi”, come scrive Giorgia Catalano, può indurre i pensieri a vagare senza meta, a tornare nei luoghi del cuore, a rivedere posti e paesaggi che abbiamo respirato, sguardi che si sono incrociati, mani che si sono legate nella frazione di un attimo e destini che si sono smarriti “[nel] freddo vapore [di un tedio che] avvampa” (Marcuccio). I pensieri “[v]olan via distanti/ [...] sommersi da acqua/ di vita e dolore” (Catalano) e diventano come certi zair che assillano la mente e “requie non danno” (Marcuccio). È sempre “lo strazio, il desiderio dell’impossibile continuare,/ del voler vivere e poter continuar a vivere/ ma... ahimè «è tempo... di morire»” (Francesco Arena). “Mi basta il tempo di morire...” cantava il grande Battisti, morir per rinascere ad altra forma, cercando catarsi nel verso poetico. E solo allora “[l]e nuvole si aprono [e anche] il cielo cessa di piangere/ [mentre] il pensiero [...] scardina il firmamento” (Arena). Ma “a ché continuare a lottare?”(Marcuccio)
La pugna è dura, fa male, morde le carni, procura ostacoli, però il solo ricordo di un raggio di sole può dissolvere dissidi e lenire ferite. “Eppure amo una sorta di luce/ una sorta di voce e di profumo e di cibo,/ una sorta di abbraccio”[20] scrive Agostino di Ippona mentre Platone insegna che “il pensare è un dialogo che l’anima [...] fa con se stessa”[21]. Dunque, pensiero, ricordo, attimo, battito... e tutto esplode e implode al di fuori e dentro di noi “[n]el buio/ nel suo silenzio/ un battito” (Antonino Natale) ed è sempre un battito di vita, a far vaporare le nebbie della mente, a far scorrere adrenalina nelle vene. È sempre un battito che ci cattura, che ci incatena alle “membrane dell’universo intero” (Natale) mentre “un varco di cielo/ scolora/ l’alba” (Marcuccio) e si fa giorno chiaro nella natura come nella nostra esistenza. Però, “[s]e un’idea ti si confonde [le idee],/ lasciala, e passa oltre; poi riprendila/ a mente fresca, scuotila, bilanciala.../ [perché le Nuvole restano sempre nuvole e mutano forma a loro piacere]”[22] come a loro piacere mutano forma i versi della poesia che in stella muta il caos che ristagna dentro di noi; noi che siamo pellegrini sempre alla ricerca di noi stessi e sappiamo che, come scrive Antonio Machado, “[andiamo] sognando cammini nella sera [e che] nel grande rettangolo deserto [è sempre] un pianto solitario il soffio/ che spazza via la polvere e la cenere”[23] e il mondo, come scrive Lawrence Ferlinghetti, resta sempre “un posto bellissimo/ in cui nascere/ se non t’importa che la felicità/non sia sempre/ così divertente/ [...] perché perfino in paradiso/non si canta tutto il tempo”[24].
Lucia Bonanni
Bibliografia
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[1] AA.VV., Dipthycha 2. Questo foglio di vetro impazzito, sempre, c’ispira..., a cura di Emanuele Marcuccio, TraccePerLaMeta, 2015, pp. 184.
[2] Emanuele Marcuccio, Anima di Poesia, TraccePerLaMeta, 2014, p. 27.
[3] Alceo, “Decima musa”, trad. Salvatore Quasimodo, in Id., Tutte le poesie, Oscar Mondadori, 2004, p. 297.
[4] Aristofane, Le Nuvole, in Le Commedie, trad. Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1924, p. 77.
[5] Omero, Odissea, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, 1988, p. 163.
[6] Sofocle, Antigone, trad. Luisa Biondetti, Feltrinelli, 1987, p. 85.
[7] Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Prefazione, Einaudi, 1968, p. V.
[8] Ivi, p. XI.
[9] Vittorio Alfieri, Rime, CLVII, in Antologia illustrata della Poesia, a cura di Elvira Marinelli, Giunti, 2005, p. 316.
[10] Cesare Pavese, Op. cit., p. 47.
[11] Gian Piero Lucini, “Espettorazione di un tisico alla luna”, in Poesia Italiana del Novecento, a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, 1969, p. 240.
[12] Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, in Prose e Poesie, Co’ tipi del Gondoliere, 1842, p. 379.
[13] Matsuo Bashō, in AA.VV., Il grande libro degli haiku, a cura di Irene Starace, Castelvecchi, 2005, p. 8.
[14] Walt Whitman, Foglie d’erba, trad. Ariodante Marianni, BUR, 1988, p. 152.
[15] Joyce Lussu, Nazim Hikmet, in Tradurre poesia, Robin, 1998, p. 47.
[16] Dino Campana, Canti Orfici, Einaudi, 2003, p. 39.
[17] Gesualdo Bufalino, in AA.VV., 201 aforismi sulla felicità, a cura di Roberto Bonistalli, Demetra, 2000, p. 10.
[18] Daria Mendicanti, L’altro sguardo, Mondadori, 2010, p. 291.
[19] Jorge Luis Borges, Finzioni, trad. Franco Lucentini, Einaudi, 2006, p. 97.
[20] Ermes Ronchi, Tu sei bellezza, Paoline, 2008, p. 27.
[21] Platone, in AA.VV., Interiorità e anima. La psychè in Platone, a cura di Maurizio Migliori, Vita e Pensiero, 2007, p. 151.
[22] Aristofane, Op. cit., p. 75.
[23] Antonio Machado, Paesaggi d’amore, Passigli, 2010, p. 55.
[24] Lawrence Ferlinghetti, in AA.VV., Antologia illustrata della Poesia, Giunti, 2005, p. 102.
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