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Pro Letteratura e Cultura

Fabbriche dei clic e schiavi 2.0

8 Agosto 2013, 21:11pm

Pubblicato da Francesco Vignotto

Questo repost proviene da Mess Age.

Dalla tratta dei (ro)BOT alla tratta degli schiavi pagati 120 dollari l'anno per cliccare e portare traffico a siti e pagine Facebook. Cronaca di ordinaria follia nel web 2.0, dove la febbre per la misura dell'engagement e la spersonalizzazione delle relazioni produce mostri. Da azionare con un clic: semplice, 'pulito' e...

Un anno fa eravamo nel pieno dello scandalo dei falsi follower. Marco Camisani Calzolari aveva dimostrato come molti numeri sui social network fossero artefatti grazie all'uso dei BOT, ossia dei programmi che simulano il comportamento umano in rete. Finti fan e finti follower potevano essere acquistati a pacchetti di migliaia per pochi euro, gonfiando il consenso politico o l'apprezzamento verso brand e VIP.

Uno dei parametri utilizzato da Camisani Calzolari per rilevare il tasso di BOT era l'assenza di interazione: dopo il clic su 'follow', i finti profili rimanevano spesso inerti.

Verso l'ottobre del 2012, tuttavia, avevo raccontato come stesse sorgendo un nuovo tipo di compravendita dei consensi, molto più subdolo. Il mio lungo articolo Ma gli androidi in rete... iniziava proprio con un'improvvisa invasione di fan e di like su una pagina Facebook (italiana) da parte di decine di migliaia di utenti asiatici, che avevano spostato l'epicentro delle interazioni nella capitale dell'Indonesia. Utenti veri, con una faccia vera e soprattutto delle vere dita con cui cliccare.

Voilà le interazioni. Voilà gli utenti reali e senzienti.

Nei giorni scorsi un'inchiesta della trasmissione Dispatches di Channel4 ha confermato quello che allora era già più di un sospetto, rivelando un mercato che molto probabilmente è ben più vasto e più evoluto della semplice compravendita di like.

Gli autori della trasmissione hanno aperto una pagina Facebook dedicata alle zucchine e hanno dimostrato come con 15 dollari sia possibile acquistare un migliaio di 'like', grazie ai servizi di una 'click farm' situata a Dhaka, in Bangladesh, dove esisterebbe una vera e propria industria specializzata nel settore che coinvolge tra i 20 e i 25mila lavoratori.

Rimane un fatto, aldilà dei brand e dei soliti vip coinvolti nell'inchiesta, aldilà delle reazioni piccate di Facebook e dei social media manager che scaricano la colpa sui clienti 'che vogliono numeri'. Come evidenzia il Guardian:

Per i lavoratori, tuttavia, è un lavoro miserabile, seduti di fronte ai monitor in squallide stanze che si affacciano su una parete vuota, con le sbarre alle finestre e talvolta lavorando anche di notte. Per questo, potrebbero dover generare 1000 like o seguire 1000 persone su Twitter per guadagnare un solo dollaro.

The Guardian

Ma c'è dell'altro.

Nell'inchiesta spunta anche il nome di uno dei tanti servizi online che permettono di promuovere siti, profili e pagine sui social network. Shareyt.com ha sede proprio a Dhaka. e si presenta come un intermediario che fornisce like, visualizzazioni di Youtube, traffico diretto in 'crowdsourcing', cioè grazie a utenti che si scambiano favori, clic e visualizzazioni. In apparenza sembrerebbe un lavoro 'pulito', tuttavia il titolare del servizio rivela a Dispatches che circa il 30-40% dei clic arriverebbero dal Bangladesh (di qui la stima dei 20-25mila lavoratori in loco).

Quello che suggerisce Dispatches è che servizi come Shareyt, in sostanza, utilizzerebbero le click farm come servizi di outsourcing in dosi considervoli, ammesso e non concesso che il rimanente 60-70% di traffico che non arriva dal Bangladesh non venga da altre click farm in altri paesi.

A questo punto, restano ferme le considerazioni che espressi a suo tempo riguardo alla valutazione puramente numerica del traffico e dei like: anche se si trattasse unicamente di scambi di favori, il valore effettivo della popolarità ottenuta in tale modo è più virtuale che reale, anche se - è vero - quando le inserzioni vengono pagate per clic o per numero di visualizzazioni il gioco può essere redditizio. Tuttavia, nella filiera c'è sempre qualcuno che rimane fregato, oltre agli 'schiavi'.

Ora però si aggiunge una domanda: tra i tanti tool utilizzati da SEO e Social Media Manger per alzare i numeri, quanti di essi sfruttano la forza lavoro sottopagata delle clic farm, spesso all'insaputa degli stessi utenti di tali tool? E soprattutto: interessa a qualcuno che dietro a molti casi di successo ci potrebbero essere decine di migliaia di persone stipate in capannoni, in condizioni igieniche pessime, pagate 120 dollari l'anno per cliccare e per vedere cose che non amano, cose che nemmeno possono comprendere?

Temo che la risposta possa essere un sì che un rapido oblio pieno di lucine colorate trasformerà nel suo contrario.

Fabbriche dei clic e schiavi 2.0

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